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 AÉLIS    


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L’amore è tutta la storia della vita di una donna, un episodio soltanto in quella dell’uomo.
Madame De Stael, Dell’influenza delle passioni



1.



Vittoriale, 1 marzo 1938, ore 20.30



Lo spazio è angusto. Nel corridoio semibuio si è raccolto il personale della villa: tutti aspettano in silenzio.
Mi sento sola, sperduta tra la piccola folla di domestici, in attesa da mezz’ora dietro la porta chiusa.
Madame Baccara è dentro. E’ stata subito ammessa al capezzale del Comandante, ma lei è la signora della casa, non una semplice domestica come me, anche se... non è proprio così...
Io non posso entrare: bisogna rispettare la forma. Come è sempre stato, almeno ufficialmente, tranne quando lui stesso non decideva altrimenti, ma ora non è in condizioni di dare ordini...
Mi stringo nelle spalle, porto le mani alle tempie; vorrei scacciare dalla mente le parole che m’hanno sconvolto: «Presto, presto, il Comandante sta molto male». Per quanto mi sforzi, non riesco a ricordare chi le abbia dette. Mi sembra ancora di vedere quella figura fare irruzione nella sala del Mappamondo, l’ampio soggiorno del Vittoriale.
Io e madame avevamo appena finito di cenare, sole, dopo averlo atteso invano. Mon maÎtre l’aveva promesso quella stessa mattina che avrebbe cenato con noi; poi invece era arriva Emy, la tedesca, con la sua voce tutta consonanti: «Il Comandante D’Annunzio non sta bene, vuole restare da solo, mi ha ordinato di portargli la cena nella Zambracca, vuole lavorare ancora un po’ alla sua scrivania, ha detto che non si sente del tutto a posto e non vuole distrarsi».
A me non è mai piaciuta, quella: una vera francese diffida sempre di chiprarla con accento teutonico. Il pensiero dell’avversione nei confronti della bionda altoatesina mi distrae da quanto sta accadendo dietro l’uscio chiuso in fondo allo stretto corridoio.
D’un tratto la porte si apre, i domestici si accalcano per avere una risposta alla domanda che nessuno osa fare.
«Un medico, presto!» grida madame, con un tono acuito dall’ansia, piombando come una furia tra di noi, scostando malamente chiunque ne ostacoli il passaggio.
Sento la morsa inesorabile della paura; d’istinto l’afferro per un braccio: «Madame. Per carità, cos’è accaduto?»
Madame non ascolta, mi guarda senza vedere e poi corre via, lungo la galleria della Via Crucis. Passa rapida davanti alle immagini dolorose della passione di Cristo e si dirige verso il telefono: il lungo vestito di velo nero le sbatte contro le gambe, la chioma grigia in disordine sullo scialle dalle frange viola. Grida: «Chiamate il dottor Duse, chiamate il dottor Cesari, presto!» E’ un ordine rivolto a tutti e a nessuno.
Il suono di quelle parole ha un’eco dolorosa nelle mie orecchie; vorrei saperne di più, ma madame è già sparita.
Trovo un varco tra i domestici incerti sul da farsi, entro nello studio senza aspettare di essere chiamata e lo cerco con lo sguardo, senza vederlo.
Soffoco. I miei occhi frugano ogni angolo, si spostano inquieti verso la camera da letto: il Maestro ha il capo riverso sui cuscini. Cerco di abituarmi alla luce fioca della lampada di opaco vetro colorato, lo sguardo scivola sui piatti colorati alle pareti, sui calchi sopra la piccola libreria dove sono allineati i suoi libri preferiti.
Sembra tutto normale, se non fosse per le persone che si affannano sopra il corpo inanimato. L’infermiera dà ordini concitati, nel vano tentativo di provocare qualche reazione. Nulla.
Guardo Gabriele: forse sta solo dormendo. Mi attacco a un filo di speranza. Ma come puògrave; dormire con gli occhi aperti? E’ solo perso nell’oblio, presto si sveglierà e tutto tornerà come prima. Poi mi avvicino al letto e allungo la mano. Voglio toccarlo, sentirne il respiro. Madame si sbaglia, non è così grave.
Mi impongo di ritrovare la calma, di riflettere. Intanto, le mie dita sfiorano il volto amato, sotto lo sguardo preoccupato dell’infermiera che non desiste dal praticare cure inutili.
«Nooooooo!» Non riesco a trattenere l’urlo mentre mi piego su di lui, e crollo ai suoi piedi. Ho sentito la morte sotto le dita, nessun alito di vita, per quanto impercettibile.
«Alzatevi, signorina Aélis, alzatevi, vi prego». La voce di una delle cameriere mi giunge lontana, ovattata.
«Svegliatevi, mon maÎtre, vi prego, rispondete. Non potete lasciarmi così, senza una parola. Sono Aélis, la vostra piccola francese. Ricordate quando mi avete dato questo nome? Ero così felice, vi amavo così tanto…» Sono queste le parole che credo di pronunciare, ma dalla mie labbra non esce un suono. Guardo il volto della donna che cerca si staccarmi da lui: la ragazza ha gli occhi rossi, lacrime le rigano le guance, nel suo sguardo si legge la terribile verità.
Il mio Maestro è morto.

Mi hanno fatta alzare, staccandomi le mani dalle gambe inerti, m’hanno costretta a sdraiarmi sul divano posto dietro il paravento, di fianco al letto.
Sento i rumori soffocati delle persone che si muovono nello studio-spogliatoio, quello che lui chiamava Zambracca, con uno dei tanti termini abruzzesi che amava. La stanza è piccola, ingombra di mobili e oggetti. I miei occhi si posano sulla grande scrivania sommersa di fogli, sparsi nel solito disordine, tra il luccichio argeneteo del servizio da penna di Buccellati e della testa d’aquila di Brozzi e quello dorato del calco dell’Aurora michelangiolesca. Il mobile occupa il centro della stanza, lasciando ben poco spazio ai tre voluminosi armadi, pieni di abiti e medicine, sui quali incombono i calchi in gesso raffiguranti le teste dei cavalli di Helios. Se potessero parlare. I loro occhi spenti sono stati gli unici testimoni della fine del Maestro. Nascondo il volto tra le braccia, sprofondandolo nei cuscini.
«Chi ha spostato il corpo del Comandante? A chi è venuta un’idea così stupida, perdio!» La voce dell’architetto Maroni, il più intimo amico del Maestro, sovrasta le altre, confuse in un brusio. E’ arrivato subito, non appena appresa la terribile notizia. Gli è bastato poco per percorrere la distanza tra la sua casa, immersa nel verde del parco, e la Prioria, la costruzione principale. «Siete sicuri di avere usato il giusto riguardo, non è che avete peggiorato la sua condizione…? Perdio, è D’Annunzio, non una persona qualsiasi! Non è possibile sia accaduto tutto così all’improvviso… un uomo come lui…»
L’infermiera lo guarda sconsolata, puògrave; solo scuotere il capo. Maroni allunga una mano per stringere quella del Comandate, abbandonata sul letto. Sobbalza, come investito da una scarica elettrica: non v’è resistenza in quelle dita magre. «Bisogna sistemarlo al meglio per i medici, dovranno controllare, capire. Insomma, come puògrave; essere accaduto, così, senza alcun preavviso, senza segnali…»
I due domestici che si muovono nella stanza eseguendo gli ordini di Maroni e dell’infermiera mi sembrano fantasmi. In quella nebbia dolorosa distinguo solo il corpo inanimato sul letto. Gabriele indossa un pigiama marrone un po’ spiegazzato; quel indumento sembra fuori posto sul prezioso copriletto, tra gli animali e le scene di caccia riprodotte nella delicata tessitura della seta francese. Ricordo il giorno in cui donna Maria, la moglie di Gabriele, la principessa, glielo regalògrave; portandolo dalla Francia.
«A questo punto, non c’è altro da fare», dice Maroni, rassegnato.
Le sue parole bloccano gli ultimi tentativi dell’infermiera che si agita ancora nel vano tentativo di ottenere l’impossibile.
Maroni assiste immobile al frenetico andirivieni; forse è l’unico ad avere trovato la calma, a cercare di ragionare senza farsi coinvolgere dall’affetto che lo legava al Comandante. «Bisogna rassegnarsi, purtroppo», dice, rivolgendosi a madame Baccara.
Lei è di nuovo lì, dritta ai piedi del letto, stringe tra le mani un fazzoletto e cerca di trattenere il pianto. La suo fianco c’è ora donna Maria, giunta in pochi minuti da Villa Mirabella, la residenza ai confini del parco del Vittoriale assegnatale dal marito. Chi l’avrà avvisata, se sono tutti qui? Ma non importa.
«Allora è vero, non volevo credere… Ma come?» mormora donna Maria, guardandosi attorno smarrita. Sospira e si sposta a fianco del letto per piegarsi con l’aristocratica grazia di sempre a sfiorare con le labbra la fronte ancora calda. «Sicuri? Sembra solo addormentato…»
Luisa Baccara piega il capo in segno di assenso.
«Capisco…» sussurra la principessa, stringendo le labbra sottili sul volto segnato da una fitta rete di rughe. «Bisogna prepararlo, vestirlo… Non puògrave; restare con quel pigiama, non è dignitoso». La sua voce si fa autoritaria, mentre si guarda intorno per dare gli ordini che ritiene opportuni.
«Mi dispiace, donna Maria, ma occorre che i medici lo trovino così come era al momento del… trapasso». Maroni parla lentamente, con il riguardo dovuto. Nonostante si sforzi di celare i suoi sentimenti, le parole gli escono a fatica, rese quasi incomprensibili dal pianto trattenuto: «Un uomo come lui, un monumento vivente della nostra Patria, non puògrave; morire come uno qualsiasi; bisognerà rendere conto al Paese intero della sua improvvisa dipartita».
Madame Baccara e io guardiamo donna Maria senza dire una parola. Nessuna di noi due riesce ad accettare quanto è accaduto, tantomeno a decidere ciògrave; che è giusto fare. Per noi è incomprensibile quell’atteggiamento apparentemente sicuro, quell’agire così determinato: come puògrave; donna Maria mantenere la calma in un momento simile?
D’un tratto capiamo: lei è la consorte ufficiale del Comandante, la vedova addolorata del principe di Montenevoso.
«Rizzo… vado a telefonare a Rizzo», annuncia Maroni.
Nella confusione seguita al drammatico momento si sono dimenticati del questore che alloggia a Gardone. Bisogna che sappia e giunga al più presto per occuparsi di ogni cosa. L’architetto lascia la stanza mentre le donne cominciano a spogliare il Maestro per lavarlo e vestirlo.
Mi sforzo di alzarmi, anche se con gran fatica; voglio guardare quel corpo, aiutare le altre in quell’ultima, penosa incombenza. Guardo mentre gli tolgono il pigiama, la biancheria macchiata, e provo un senso di pudore che mi costringe a volgere altrove lo sguardo. Non riesco a sostenere la vista di quelle membra scarne e segnate dagli anni: sembrano di un estraneo, non resta nulla del corpo di colui che ho conosciuto e amato. Lo ricordo bene, sempre vanitoso e fiero del proprio aspetto, e non posso non pensare alla sofferenza che gli causerebbe vedersi ridotto in quello stato e sotto gli occhi delle sue donne.
«Bisogna lavarlo, prima», ordina donna Maria. «Svelte, prendete degli asciugamani puliti».
Guardo Madame Baccara, negli occhi la domanda: è donna Maria che comanda, ora? Non ci siamo mai amate io e Madame: non ho mai accettato che Luisa Baccara fosse la signora della casa e lei ha sempre cercato di relegarmi nel mio ruolo di cameriera. Eppure avevamo finito col siglare un mutuo compromesso, per sopportarci a vicenda. E questa donna Maria, cosa vuole, adesso? Basta il fatto che porti il nome D’Annunzio?
«i dottori, sono arrivati i dottori», annuncia il carabiniere che di norma staziona davanti all’ingresso del Vittoriale e che ora cerca di sbirciare dentro la stanza.
«Entrate, prego», invita madame D’Annunzio. «Lui è sul letto, lo stavamo preparando… non vi è più nulla da fare, temo».
Il dottor Duse le bacia la mano: «Principessa, vi porgo i miei omaggi». Il dottor Cesari si affretta a imitarlo prima di ordinare, lo sguardo già sul corpo esangue: «Bene, signore. Ora vogliamo restare soli, dobbiamo procedere».
La stanza comincia a svuotarsi mentre i due uomini si piegano sul maestro per cominciare l’ispezione. Espletano il loro compito procedendo con lenti gesti professionali; sono così assorti che non si accorgono nemmeno dell’uomo che alle loro spalle irrompe nel locale.
«Buona sera». La voce di Rizzo fa sobbalzare tutti. «Dottor Duse, dottor Cesari, sono felice di vedere che siete arrivati subito. C’è qualcuno, qui, in grado di raccontare cos’è accaduto?».
«L’hanno trovato alla sua scrivania», risponde una cameriera che si è trattenuta sulla porta mentre gli altri sono usciti.
«Chi l’ha spostato?», chiede Rizzo, contrariato.
Sono ferma, in piedi, accanto alla finestra della Zambracca. Non lo ascolto: non sopporto di vedere quelle mani sul suo corpo, lo profanano. Che cosa ne sanno del mio Gabriele? Non posso guardare oltre, né sentire altro.
«Cosa aveva preso, stasera?», domanda Cesari.
«Bisognerebbe chiedere a Emy o alla sua infermiera», risponde Rizzo, che poi aggiunge: «Ma importa veramente? Via, signori, abbiamo davanti Gabriele D’Annunzio. Capite, vero? Era un eroe, non un uomo qualunque. Cosa diremo al Duce, al Paese? A questo dovete pensare mentre completate la vostra visita, non occorre cercare risposte che non interessano a nessuno e che potrebbero risultare, come dire… imbarazzanti? Gabriele D’Annunzio è un mito, è il Vate, il Comandante. La Patria vuole sentire che è morto come è vissuto e onorarlo nel ricordo».
Cammino nella cucina silenziosa, la casa sembra essersi svuotata, come se tutti fossero in attesa di sapere cosa accadrà ora che lui non c’è più. Nervosamente sistemo le tazze di maiolica dai delicati disegno mitologici, con versi greci vergati in corsivo nero, e la teiera calda sul vassoio sul vassoio d’argento di Buccellati: devo servire la bevanda ai medici che hanno finito la visita e stanno stilando il referto di morte. Ictus, hanno detto, o forse il cuore che ceduto…
Mi sfugge un sospiro, trattengo un singhiozzo, e una rabbia improvvisa mi attanaglia. Gabriele non puògrave; avermi lasciata. Nessuno era preparato e una cosa del genere, io meno di tutti. Stava bene, la nostra vita scorreva secondo le vecchie, consolidate abitudini; certo, negli ultimi mesi mi era parso affaticato, mostrava i segni dell’età, ma nulla di più.
Inspiro con forza cercando di trovare una risposta a quanto è accaduto. Com’è possibile che nessuno si sia accorto del pericolo incombente? Lui viveva circondato da una corte di fedeli amici, medici e infermiere che dovevano provvedere alla sua salute. Certo la vecchia malattia a volte lo affliggeva, certo eccedeva nei suoi desideri più sfrenati. Ma non era malato. Era stanco, solo stanco.
Sono oppressa dal senso di colpa per non aver capito che la fine era ormai prossima, mi sento impotente contro il destino. Se avessi capito, non sarei stata così insofferente con lui. Quante volte mi aveva chiamata negli ultimi giorni, quanti bigliettini mi aveva scritto chiedendomi mille piccoli servizi. E io? Mi ero adombrata, avevo reagito con poco garbo, pur assecondandolo.
Afferro il vassoio e mi dirigo verso il corridoio. Un rumore di passi attira la mia attenzione, ogni minimo rumore echeggia nella casa innaturalmente silenziosa. Mi fermo, aspettando che il nuovo arrivato entri nella stanza.
I passi si bloccano, indugiano oltre la porta, poi sento un tonfo sommesso e una voce perentoria che ordina: «Datemi subito la linea!»
E’ Rizzo, lo riconosco subito, deve essersi chiuso nell’abitacolo dove si trova il telefono e che Gabriele aveva voluto insonorizzato per poter parlare indisturbato. Ma la porta dello stretto cubicolo non è chiusa bene, Rizzo non se n’è accorto e continua a parlare a voce alta.
«Sì, sono io, eccellenza, Rizzo. Chiamo dal Vittoriale per darvi la notizia… quella che aspettavate…»
Il Duce aspettava quella notizia? Non capisco: devo sapere.
«Sì, esatto: si è sentito male alle venti… Morto, sì. Non ci sono dubbi». Rizzo respira con affanno, teso ad ascoltare ciògrave; che gli viene ordinato dall’altro capo del telefono. «Sarà difficile sapere l’esatta natura del male che… Naturale, i medici hanno fornito una versione ufficiale: ictus».
A che cosa allude, il questore?
«Finalmente, certo. Finalmente è morto, eccellenza. Sarà fatto tutto il necessario senza indugio. Quali sono gli ordini?».

Sono ancora lì, in cucina, col vassoio in mano, incapace di prendere una decisione. Rizzo è ormai andato via e so che dovrògrave; riscuotermi da quella immobilità, pensare alle mille domande che non trovano risposta: perché «finalmente»? perché quella morte così improvvisa e misteriosa? Perché vogliono che tutto finisca in fretta?
Appoggio il vassoio sul tavolo verde e mi passo una mano tra i capelli, una mia piccola mania che con l’età si è accentuata: ho sempre voluto essere in ordine per lui… Non ha mai sopportato la sciatteria, le donne che non curano il loro aspetto.
Un’onda di ricordi mi sommerge: dimentica dei dottori e del tè che si raffredda, mi siedo e chiudo gli occhi, lasciandomi cullare dalle immagini di una vita.